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ASCENSIONE DEL SIGNORE

Celebriamo oggi la solennità dell’Ascensione di Gesù al cielo, e come ogni anno la fatica che faccio è quella di calare il più possibile nella quotidianità, nella vita di tutti i giorni una riflessione che rischia di essere troppo aerea e al di là delle nuvole. Fortunatamente sono davvero tanti i riferimenti alla concretezza che Vangelo (per bocca di Gesù) e prima lettura (per bocca degli angeli) vogliono trasmetterci.

Comincio dalla prima lettura Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo. L’invito, forte, che ci fa il libro degli Atti è ad abbassare lo sguardo… non è rimanendo con il naso all’insù che si attende il ritorno del Signore. Ritorno di Gesù e suo cammino quotidiano sono in stretta continuità: per conoscere, confessare e testimoniare il Veniente non occorre guardare in cielo, ma ricordare i passi compiuti da Gesù sulla terra. L’umanità di Gesù attestata dai vangeli è il magistero che indica ai cristiani la via da percorrere per testimoniare colui che, asceso al cielo, non è più fisicamente presente tra i suoi e verrà nella gloria… (comunità di Bose). E’ un pensiero questo che, (non lo nascondo), mi piace tantissimo e in nota aggiungo quanto E. Bianchi ha detto non molti giorni fa in un incontro a S. Margherita Ligure . L’altro giorno, visitando la comunità di Punta Felipe (14 Km di sterrato da Cascajal, la comunità più distante nel territorio della mia parrocchia) e incontrando Tato, novant’anni e suo figlio (psicolabile), guardando dove e come vivono, mi è venuta voglia di guardare il cielo… di cominciare a camminare guardando il cielo non per invocare Dio ma perché provavo fastidio, perché non volevo vedere, rendermi conto. Mi è venuto in mente un incontro fatto ai campi estivi con don Daniele Simonazzi, dove ci dicevamo che proprio dal momento in cui Gesù fu elevato in alto sotto i loro occhi e dal momento in cui una nube lo sottrasse al loro sguardo, da quel momento incomincia il nostro essere Chiesa. Oggi ci viene detto anche che noi non dobbiamo guardare in alto e che comunque il Cristo è sottratto al nostro sguardo. Non perdiamoci a guardare in alto: il Cristo ci è sottratto. O meglio, se la nostra vita di fede, se la nostra vita ecclesiale è guardare in alto ci precludiamo la possibilità di riconoscere Gesù che ci visita in basso. E questo vuol dire che ciò che siamo chiamati a fare, lo siamo chiamati a fare qui, senza vivere di nostalgie e di rimpianti. La condizione dei cristiani è la condizione di coloro che sanno che il Cristo li ha preceduti, ma sanno anche che il Cristo è stato sottratto ai loro sguardi (don Daniele Simonazzi). È molto più facile guardare in alto che guardarci in faccia gli uni gli altri, (la vita di Tato e le sue parole sono un continuo richiamo a cambiare la direzione del mio sguardo) è più facile guardare il cielo che guardare più sotto, ad altezza d’uomo. Guardando il cielo rischiamo di non guardare dove mettiamo i piedi e di calpestare i poveri (don Daniele Simonazzi). Bisogna che abbassiamo lo sguardo per guardare là dove il Cristo ha vissuto, ha patito, è morto ed è risorto… sono chiamato ad abbassare lo sguardo, per riconoscere in Tato il risorto che a Punta Felipe vuole incontrarmi.

E poi la concretezza di questa pagina di vangelo Così sta scritto… le ultime parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli fanno riferimento alle Scritture… è sempre la debolezza della parola il luogo scelto da Gesù per, (pur portato al cielo), rimanere, fermarsi nella sua chiesa. Che bello, Gesù non abbandona i suoi discepoli ma lascia a loro le sue parole come il segno più forte di sé… nella Scrittura allora, la presenza, il progetto, il disegno di Dio; credo che questa sottolineatura che Gesù fa della importanza della parola, divenga per i discepoli e per ciascuno di noi una responsabilità: di questo siete testimoni. “Facciamo in modo che Cristo non si allontani dalla nostra storia†ha detto un giorno O. Romero in un sua omelia… i testimoni hanno questo compito, questa responsabilità, indicare la presenza indicando i volti, condividendo le situazioni, annunciando il Vangelo. La Scrittura, e quindi la presenza di Gesù sono affidate a dei testimoni… questo lo trovo di una bellezza straordinaria: non è la consegna di una dottrina, non è la consegna di una morale, non è la consegna di regole l’ultimo desiderio di Gesù, ma la consegna di una parola. Credo anche che si possa dire il contrario: Gesù al tempo stesso consegna i discepoli alla Parola di Dio, li affida alla Parola perché sia questa a condurli, a guidarli, a insegnare un cammino, a ricordare loro cose semplici e concrete: saranno predicati a tutte le genti la conversione e (per letteralmente) il perdono dei peccati. Vivere loro per primi la conversione per poi poterla chiedere ai fratelli e sorelle che incontreranno (con questa prima conversione dello sguardo alla quale subito sono richiamati dagli angeli), per poi perdonare i peccati, ovvero essere segni di misericordia e di perdono, condurre gli uomini alla risurrezione… si perché tutto è pasquale in questi versetti… la conversione che è il passare attraverso una morte (il rendersi conto che qualcosa è necessario far morire in noi) e il perdono (la resurrezione), ovvero essere ristabiliti in una relazione buona con Dio. Tra le cose semplici e concrete c’è anche l’attenzione a non escludere nessuno, ad avere la stessa ampiezza dello sguardo di Dio tutti i popoli, tutte le genti… sottolineo questo tutte le volte che posso per non dimenticare che nella chiesa si sta vivendo un dibattito pericolosamente orientato a restringere l’ampiezza di questo sguardo in un qualcosa di importanza fondamentale come la preghiera di consacrazione della Messa (scusatemi l’insistenza…). Quello che tanti vorrebbero, passare dal tutti al molti nelle parole della consacrazione sul calice sarebbe un andare contro, un tradire le ultime parole di Gesù.

Mi piace molto anche come Luca conclude il viaggio terreno di Gesù… un gesto e parole di benedizione, perché i discepoli potessero vivere di quelle parole, perché fino all’ultimo non si sentissero giudicati per la loro inadeguatezza, per tutte le volte che non hanno compreso le parole di Gesù, per tutte le volte che non sono stati capaci di stare con Lui, per i loro tradimenti… abbandonato da loro fino a tre giorni prima (nel vangelo di Luca dalla resurrezione all’Ascensione passa una giornata e tutto si conclude…) avrebbe potuto dirgliene quattro o fargli mille raccomandazioni… e invece alza le mani, come in un ultimo abbraccio e benedice, dice bene di loro, parole d’amore che saranno memoria della sua presenza.

E noi dobbiamo chiederci che trasmissione sappiamo fare alle nuove generazioni. È anni che stiamo sulla catechesi ma se non funziona, dobbiamo chiederci se ci sono altre vie e non sarà perché dimentichiamo proprio la via centrale, quella che riguarda l’annuncio di Gesù Cristo, la conoscenza di Gesù Cristo, la prassi umana di Gesù Cristo come cammino per riscoprire ciò che di divino c’era in lui?