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XII DOMENICA T.O.

Discepoli, accogliendo grazia e consolazione

Inizia, con l’ascolto della Liturgia della Parola di questa domenica, una lunga riflessione sulla sequela, sul discepolato. Per l’evangelista Luca la sequela è dentro al grande viaggio verso Gerusalemme, comincia con il capitolo 9,18 non in un luogo topograficamente definito (Mt e Mc danno l’indicazione di Cesarea di Filippo). Per Luca è importante il contesto teologico e spirituale, quindi tralascia la geografia per sottolineare che l’inizio è nella preghiera, nella relazione con il Padre, una intimità della quale partecipano anche i discepoli. Una prima importante indicazione allora, visto che qui Gesù pone la domanda ai discepoli: solo in questo contesto di preghiera, di relazione intima, io posso ricevere il volto, l’identità di Gesù. Al di fuori di questo si possono solo fare ipotesi belle, certamente suggestive (per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri uno degli antichi profeti che è risorto), ma che restano distanti dalla verità del figlio di Dio. La riflessione sulla sequela allora, credo sia bene affrontarla dal punto di vista ecclesiale, perché nei discepoli Gesù parla alla chiesa . Leggo però una responsabilità a due livelli nella pagina di vangelo ascoltata, livelli che mi vengono suggeriti dall’uditorio che Gesù si sceglie: prima si dirige ai discepoli Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui, pose loro questa domanda… e poi si dirige a tutti Poi, a tutti, diceva… parto da qui, da questa seconda parola di Gesù, per riconoscere come tutti (e quindi ciascuno di noi) siamo invitati a seguire Gesù, a prendere una posizione, a deciderci… tutti, nessuno escluso quindi, inseriti in questo splendido cammino di libertà introdotto dalla particella “se”: se qualcuno vuol venire dietro a me. Quel “se” è molto importante, perché da un lato mi dice che questo cammino è una proposta, non un obbligo, e dall’altro mi dice a quali condizioni posso camminare e quanto sia esigente la sequela di Gesù… posso così fermarmi un po’ a pensare su chi cerco, su cosa cerco… ecco: il discepolo cerca la persona di Gesù e basta. La cerca però ad una condizione: che la proposta sia tanto interessante e affascinante da muovere ed informare la propria libertà… è qui che secondo me entra in gioca l’altra responsabilità, quella dei discepoli e dei loro successori. Si perché la bellezza del volto, della relazione, del cammino, del discepolato, sta nelle mani dei discepoli (ieri), del collegio apostolico, della gerarchia (oggi), che Gesù invita fortemente a stare con la gente Chi sono io secondo la gente? I discepoli non potrebbero dare una risposta così articolata se non conoscessero le persone che Gesù ha loro affidato, se fossero distanti da loro, se le guardassero dall’alto in basso… l’invito è chiarissimo: stare con la gente, ascoltarla, non accontentarsi di quello che appare ma entrare nella vita per capire quale volto di Dio è nato, quale Gesù hanno conosciuto, a quale chiesa desiderano appartenere. E’ bello come Gesù prenda per mano i suoi per condurli al divino che si manifesta nell’umano e per fare questo lascia cadere la risposta (giusta per altro), di Pietro per restare in una categoria a lui cara: non dice Messia, ma dice Figlio dell’uomo. Per quello che riguarda me lo sento decisivo perché l’umanità di Gesù mette in moto la mia libertà, il mio desiderio; ciò che mi affascina del volto di Dio che Gesù è venuto a rivelare è la sua vicinanza, il suo desiderio di incrociare, ogni giorno, le strade degli uomini. Gesù non la fa tanto facile, non ha spiegazioni logiche, anzi: deve soffrire molto. E’ l’idea che tante volte ci siamo ripetuti: quello del cristiano non è un cammino semplice. Gesù avverte i discepoli e anche noi: non si tratta di trionfare, di vincere saltando sul carro del vincitore, ma si tratta di riconoscere nella croce e nelle croci parole che ti visitano e che sei chiamato ad accogliere, portare, condividere. Gesù, nel vangelo di oggi, ci invita a rinnegare noi stessi … credo di poter interpretare così: la prima croce da portare, quella di ogni giorno, è il decentrarmi. Rinnegare se stessi non è ingratitudine verso il dono della vita, non è nemmeno annullarsi, disprezzarsi… rinnegare me stesso è semplicemente riconoscere che le mie ansie, le mie preoccupazioni, quelle che credo essere le mie croci, non vengono per prime e io non sono il centro del mondo. Quando faccio questa opera di decentramento ecco che sono pronto per cominciare a seguirLo. La seconda lettura di oggi mi pare che ci aiuti a capire perché Gesù ci chiede questo decentramento: perché la verità di noi non sta nell’affermazione della nostra unicità, originalità, idee, convinzioni, ma nel riconoscerci figli, tutti con uguale dignità perché appartenenti a Cristo. La vera tentazione è la competizione, perché in fondo in fondo ci piace pensarci e crederci migliori perché con determinate caratteristiche… mi pare che la parola di Dio ci dica con chiarezza che il discepolo non lo fanno le differenze, ma la fede in Gesù. Un ulteriore aiuto a comprendere questo decentramento è il salmo che abbiamo pregato in risposta alla prima lettura… mi pare un continuo invito a centrare la propria vita in Dio: sei il mio Dio, dall’aurora ti cerco (ti offro le primizie della mia giornata), ti benedirò per tutta la vita ecco cosa diventa quel ogni giorno di cui ci parla Gesù nel vangelo, nella fedeltà ad un appuntamento, nella fedeltà del camminare con Dio, diventa uno stare con Lui per sempre.
Rileggendo queste parole mi rendo conto che tendo sempre a cavarmela con poco, penso ad esempio al fatto che la mia croce può essere il decentrarmi… però ci sono persone che sono per me un continuo richiamo alla serietà e alla durezza della croce. Ad esempio Barbara, che ho incontrato venerdì scorso a Cascajal, malata di cancro allo stadio terminale e la sua famiglia: due sorelle operate anch’esse di un tumore da poco tempo e il loro papà, nelle stesse identiche condizioni. Sono per me una testimonianza di croce portata e contemplata e per questo portatrici di quello spirito di grazia e di consolazione del quale ci parla la prima lettura (Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto). Spirito che scende, come promesso, su chi abbandona la propria vita alla provvidenza amorosa di Dio. Sembra irrispettoso di una condizione così dura, ma lo dico ugualmente: è bello fermarsi a parlare con loro. Parlare della loro condizione, della loro malattia cioè la loro Croce e del modo che hanno di affrontarla cioè la loro speranza. E con stupore ringrazio per essere testimone di come Dio riversa la grazia e la consolazione nei cuori di chi, nella sua semplicità e povertà, è disponibile ad accoglierla.

1 Gesù non pone questa domanda ai discepoli singolarmente, ma la pone ai discepoli come chiesa. Il “voi” è ecclesiale e la risposta a questa domanda fa la chiesa. Pietro infatti risponde esprimendo la fede della chiesa. Sempre più, nel momento in cui siamo chiamati alla fede, dobbiamo considerare come nella fede di uno c’è la fede di tutti. Non siamo mai persone la cui fede ha valenza strettamente personale. Ciascuno deve poter rispondere a nome di tutti. Il rischio che corriamo è di vivere la fede in un modo molto individualistico. Se viviamo la fede in modo individualistico, inevitabilmente ne va anche del contenuto della nostra fede. Il Gesù della fede coincide sempre più con il Gesù della croce (Diaconia).
2 Mi sono permesso di dire anche qui che parole come trionfo, come vittoria non appartengono al vocabolario di Dio.
3 mi piace molto la traduzione spagnola di questa pagina: Si alguno quiere acompañarme, que no se busque a si mismo… ossia: se qualcuno vuole accompagnarmi, che non cerchi se stesso, che non si cerchi da solo…